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Forni della tradizione

“I Forni della tradizione”
I forni collettivi erano disciplinati dai propri statuti.
In alcuni, si stabiliva che gli aventi diritto contribuissero, a rotazione, alla fornitura di legna per la prima infornata; in altri casi il primo avvicendamento cambiava annualmente.

Si utilizzavano ciocchi di legna spaccati, lunghi circa 100/120 cm, le-z-éhatse o éhalle, forniti alternando le famiglie.
Il pino e il larice erano i migliori legnami, poiché, a fine cottura, conferivano una bella colorazione ai pani. Tuttavia, era necessario alimentare il fuoco con parsimonia, per evitare che gli stessi si scurissero troppo. Pertanto, si preferiva ardere ciocchi di pioppo tremulo, che però era difficile da trovare.

Introd, 2015. Le-z-éhatse. Daniel Fusinaz

Di norma, i forni venivano riaccesi il 4 dicembre, Santa Barbara. La fase di preriscaldamento era definita con l’espressione “dechouée lo for”. I forni restavano accesi giorno e notte per settimane.
Se una famiglia non poteva sostenere la spesa per una intera infornata, si univa ad un altro nucleo familiare, cuocendo congiuntamente le rispettive mezze infornate.

Da qui l’esigenza di apporre un marchio diverso per distinguere i propri pani.
Il primo turno di cottura era il più delicato e costoso: serviva molta legna per riscaldare il forno, fino a pervenire alla giusta temperatura, che si controllava guardando
il colore della volta: se appariva bianca, si poteva procedere all’infornata; oggigiorno si utilizza un apposito termometro.
Generalmente, i pani della prima infornata, erano di qualità inferiore.

I responsabili del forno erano uomini, talvolta anche esterni al villaggio, e il loro contributo veniva ricompensato con uno o più pasti.

 

 

Verrayes, 2015. Attrezzi del forno Grand Villa. Wanda Chapellu.

«Si andava a turno, al primo spettava déchouée lo for ed era un rischio perché il forno era freddo e sovente i pani bruciavano o non cuocevano bene. A turno la posizione scalava di modo che tutti facessero il primo turno.» (Lidia Perrod, Courmayeur, 12/12/2011)

«Ogni villaggio aveva il suo forno. C’erano forni migliori e forni più scadenti, dipendeva dalle pietre con cui erano costruiti. […] I proprietari erano tutti e nessuno e ognuno aveva dei diritti. C’era il regolamento del forno. Il regolamento scritto era severo perché se non si rispettava si pagava una multa, nessuno sgarrava. La famiglia che non aveva abbastanza diritti poteva essere aiutata da un’altra che ne aveva di più. Ognuno si portava tutto il necessario: legna, ecc.» (Enrico Croux, Courmayeur, 12/12/2011).

Una volta terminata la cottura del pane, chiunque avesse a disposizione alcune pere, si avvaleva del calore del forno per preparare lè pachón(,): pere cotte lentamente fino a farle appassire (Verrayes).

Durante l’avvicendarsi delle infornate, nel caldo e ristretto riparo del forno si dava vita a una atmosfera festosa e coinvolgente; la notte era una veglia allegra, accompagnata dal crepitio del fuoco.

I cicli di cottura si concludevano in prossimità del Natale, per disporre di pane fresco durante le festività di fine anno.
Dopo un periodo di declino, attualmente si assiste alla ripresa della panificazione collettiva nei forni di villaggio. Le ragioni di questo rilancio sorgono dalla necessità di salvaguardare le tradizioni: il timore di dimenticare un importante ‘saper fare’ e dall’esigenza di rivivere un’atmosfera conviviale.
Per questo motivo, dal XXI secolo e grazie alla realizzazione di numerosi progetti di recupero rurale, sono stati concessi dei fondi europei, che hanno sancito un aiuto concreto per il restauro di molti forni.

 

 

Arvier, Planaval, 2015. Il forno. Emilio Gex